Monet a Palazzo Reale a Milano dal Marmottan di Parigi

Monet a Palazzo Reale a Milano dal Marmottan di Parigi

In mostra troviamo una selezione di opere di Claude Monet, direttamente dal Musée Marmottan di Parigi. Ma il Marmottan, lo studioso,  aveva una vera passione per l’arte napoleonica e quindi tutta dedicata al neoclassicismo, un gusto lontanissimo da quello che caratterizza la pittura impressionista che però, nel 1966, eredita, stavolta dal figlio minore dell’artista, Michael Monet, la più vasta collezione al mondo di opere di Monet.

Del resto, ricordiamolo, l’impressionismo stesso ebbe origine proprio da un’altra mostra, nel 1874, nello studio del fotografo più famoso dell’epoca, Nadar, il folle che oltre a ritrarre i più famosi personaggi dell’epoca, riuscì a fotografare Parigi dall’alto, salendo su di una mongolfiera! L’esposizione del 1874,  ospitando i nuovi pittori, anche lì accosta le loro opere modernissime a quelle più classiche realizzate da artisti in voga in quel momento, farà poi scrivere il famigerato articolo al giornalista Luis Leroy che diede il nome, con intento dispregiativo, a questa nuova corrente, prendendo spunto proprio dall’opera di Monet, «Impressione, levar del sole».

Con l’impressionismo nasce anche la pittura en plein air, all’aria aperta, impossibile fino all’ottocento perché resa possibile solo dall’invenzione dei colori in tubetto, colori che prima richiedevano un intero studio a disposizione e tempi e competenze, quasi da piccolo chimico. Ora è tutto più immediato. Gli artisti viaggiano, anche grazie allo sviluppo della rete ferroviaria, portandosi dietro tutto l’occorrente per dipingere…sì certo tele piccole, molto trasportabili. Ma il cambiamento è realmente epocale anche se ci son problemi dati proprio dal luogo…ad esempio la necessità di dipingere molto velocemente, per non perdere la luce, per non incorrere nei guai di un tempo variabile, un vento emozionante ma sicuramente scomodo, uno stormo di piccioni incontinenti insomma i rischi sono tanti!… Si iniziano a vedere le pennellate, il tratto deve essere rapido per forza, cambia anche la gamma cromatica perché i colori, visti e rappresentati alla luce del giorno, sono molto diversi da quelli cui erano ormai tutti abituati lavorando al chiuso in uno studio. Monet a volte dipingeva direttamente su di una barca attrezzata, per rimanere più vicino all’acqua! A volte si faceva dare una mano, come facchino, da Poly, un pescatore di aragoste, qui ritratto con lo sguardo  in tralice e la barba incolta e quell’aria un po’0 così, diciamo ruvida che va a sottolineare il carattere schivo del pescatore e la vita dura che caratterizza le condizioni di vita sull’isola di Belle-ile-en-mer

E sapete chi, letteralmente, trascinò all’aria aperta Monet? Eugéne Boudin che, pochi lo sanno, è un po’ il padre dell’impressionismo, seppur in maniera inconsapevole. Figlio di un marinaio, inizia a lavorare nel campo artistico, diciamo così,  aprendo una cartoleria. Conosce quindi artisti vari, tra i quali anche Millet, che lo convinceranno a lasciare il negozio per darsi all’arte. Una sua frase fa ben capire questo nuovo approccio all’arte: «Tre colpi di pennello dal vivo valgono più di due giorni di lavoro al cavalletto».  Quando è già affermato, incontra un Monet diciassettenne, nel 1858 e gli mostra, letteralmente, tutto il mondo e il modo di dipingere en plein air. In mostra abbiamo un’opera con delle mucche come soggetto. Anche Johan Jongkind, viene considerato da Monet un suo maestro nonché amico e con questo artista e collega condividerà viaggi e scoperte, tanto che alla sua morte, quando le sue opere vennero vendute all’asta, Monet comprò questa veduta di Avignone, datata 1873…proprio la data del primo soggiorno del pittore in questa cittadina.

Nel 1870 Monet sposa Camille Doncieux e vanno, chiamiamola luna di miele, all’hotel Tivoli a Trouville-sur-mer… Ma i soldi son pochi e così l’idea è anche quella di vendere i lavori del pittore ai vari turisti che frequentano la costa. Ed ecco quindi che Monet dipinge il porto di Trouville, l’Hotel del Roches Noires e svariati ritratti della neomoglie, Camille, in spiaggia anche mentre è in compagnia della moglie di Boudin, oppure da sola, vestita di bianco. Monet viaggerà parecchio, sia in Francia che all’Estero (anche in Italia eh, a Bordighera!) e del suo viaggio in Olanda abbiamo come ricordo questa immagine del porto di Zaandam ah sappiamo che ne parlerà, per lettera, anche al suo amico Pissarro, lodando i paesaggi olandesi per i colori , i mulini a vento e le barche…

I pittori impressionisti rivoluzionano la pittura non solo per quanto riguarda la tecnica ma anche per quanto riguarda il soggetto che diventa quasi…secondario! Cercano le sensazioni che un paesaggio o una scena quotidiana possono suscitare in loro e per rappresentarle al meglio ricorrono all’osservazione della luce e dei colori che inevitabilmente variano proprio a seconda della luce che li va ad illuminare. Se la luce poi varia, si muove, anche rapidamente…per il pittore impressionista è davvero il massimo.

Ma perché tutto questo? Perché ormai la fotografia è arrivata e ha cambiato tutto nel mondo dell’arte! I pittori si ritrovano ad avere come concorrente diretto della pittura uno strumento meccanico certo molto diverso dalle macchine fotografiche cui noi oggi siamo abituati eh…ma sicuramente molto più rapido e fedele di un dipinto. Il pittore impressionista quindi cerca di andare oltre alla fotografia (anche senza demonizzarla eh, molti pittori dell’epoca useranno le fotografie come basi per i loro lavori, ma appunto proponendo ciò che le immagini dell’epoca non potevano fare. Del resto erano fotografie in bianco e nero, con tempi lunghi di esposizione che spesso causavano una fotografia mossa con risultati quindi molto rigidi e poco emozionanti…quello che invece riuscivano a fare i pittori!) ed ecco quindi che Monet inizia a dipingere il vento che muove le foglie sugli alberi e i fili d’erba nei prati…

 

Dipinge l’acqua che scorre nella Senna o il mare mosso che lambisce le rocce alla base delle  case nel dipartimento della Creuse. ma…Monet ama dipingere più volte lo stesso soggetto proprio per poterlo rappresentare nei vari momenti del giorno con la luce che cambia i colori e modifica quasi forme e sensazioni

L’abbiamo già accennato ma ricordiamolo: la pittura di Monet e di tutti gli impressionisti che lavorano all’aria aperta, è possibile solo grazie ai nuovi pigmenti sintetici appena apparsi sul mercato. Pratici e in tubetto, certo, ma anche molto più saturi dei pigmenti tradizionali. La palette di Monet cambia con il tempo e con la tecnica: dal 1860 rinuncia al nero e ai colori scuri come il blu di Prussia, pian piano eliminerà anche il giallo di cromo e il verde smeraldo perché erano poco stabili e tendevano a cambiare troppo con il passare del temp. L’arancio cadmio ad esempio, è stato inventato solo nel 1820 ma si diffuse tardi perché era troppo costoso, puro è arancione ma mescolandolo si ottengono infinite sfumature di gialli e di verdi. Il Viola di cobalto chiaro si trova dal 1859, una novità assoluta per gli artisti che prima dovevano mischiare rosso e blu per ottenerlo e…non era certo una cosa semplice! Monet lo usa parecchio e di questo colore disse: «Ho finalmente scoperto il vero colore dell’atmosfera, è violetto. L’aria fresca è violetta. Fra tre anni tutti lavoreranno con il violetto».

A Londra dove soggiornerà per tre volte tra il 1899 e il 1901 Monet sperimenta un po’ di tutto. Paesaggi spettrali generati dalla nebbiolina del Tamigi e la nebbia, cari miei, fa perdere la testa a Monet: impalpabile, difficilissima da rappresentare…è però importantissima per gli studi del pittore sulla, luce e il colore che con la nebbia variano in maniere incredibili

E con le vedute del Parlamento inglese, dipinte in momenti e soggiorni differenti, inizia una nuova fase di ricerca. Il soggetto diventa solo un pretesto da cui partire per le serie di dipinti tutti uguali…eppure tutti così pazzescamente diversi.

Nel frattempo aveva scelta di tornare alla vita cittadina di una Parigi che rappresentava la metropoli  con fabbriche, stazioni e moderni mezzi di locomozione, luoghi ai quali dedicò parecchi dei suoi studi

Nel 1890 Monet, finalmente raggiunge una tranquillità economica, dopo che per anni e anni era vissuto al limite della povertà (spesso lo aveva aiutato economicamente l’amico e collega Caillebotte). Acquista quindi un casolare a Giverny per dedicarsi al giardinaggio per realizzare così un parco ornamentale intorno alla casa. Rose, gelsomini, narcisi e…uno stagno con ninfee bianche e rosa. Un ottimo spunto per dipingere sì all’aria aperta…ma con tutte le comodità d’essere a casa.

Le ninfee sono una scusa, un pretesto per analizzare la luce nel suo variare a seconda delle ore e anche per mostrare al mondo come procedeva in questo studio: «per ore», esponendo quindi poi questa serie di dipinti alla galleria Durand-Ruel con la mostra intitolata «Le ninfee, serie di paesaggi d’acqua» che fu molto apprezzata da pubblico e critica.

E qui dobbiamo fare necessariamente un piccolo passo indietro e ricordare il legame strettissimo tra Monet  e l’arte orientale. L’arte orientale era rimasta chiusa entro i suoi confini tranne  sporadici e timidi contatti fino ad esplodere con l’Esposizione Universale di Parigi del 1867  e anche oltre. Le opere del mondo fluttuante, ukiyo-e, stampe che in patria erano diffusissime, spesso venivano poi riciclate come imballaggi per proteggere le pregiate ceramiche destinate all’esportazione. Ed ecco quindi che in Francia arrivarono proprio in questo modo, nel 1856, i lavori di Hokusai, Utamaro e altri. L’artista Bracquemonde che riconobbe in quegli imballaggi immagini ben più preziose, iniziò a diffonderle e a parlarne in giro decretandone così un incredibile successo.

 

Monet ritrae sua moglie Camille, in posa con ventaglio e kimono rosso con stampato, sulla stoffa, un samurai che sembra quasi avere vita propria. E il Giappone torna nei ritratti delle passeggiate dove le figure femminili si riparano dal sole così come le figure orientali si riparano dall’acqua nelle stesse identiche pose.

 

Ma il legame tra l’artista e l’arte giapponese lo troviamo anche  in qualche inquadratura di paesaggi che ricordano davvero tanto le stampe orientali.

L’oriente lo ritroviamo anche nelle composizioni spesso asimmetriche, elegantissime e  nella scelta dei fiori come soggetti, come gli Iris che ricoprivano realmente lo stagno di Givergny, i preferiti da Monet erano proprio i giaggioli dai petali viola-blu e questa è una delle nove tel  dedicate a questo tema. Il soggetto è libero dalla prospettiva tradizionale, sulla destra la tela è lasciata volutamente incompleta e parte sicuramente dalle stampe giapponesi per arrivare poi ad uno stile autonomo.

Nel 1893 Monet si fa allestire in giardino il suo personale ponte giapponese nel laghetto con le ninfee, all’inizio un ponticello semplice, ma nei dieci anni successivi aggiungerà i glicini dalle fioriture alternate. Ora il ponte non unisce più solo le due sponde del lago ma è anche perfetto scenario per rappresentare e studiare la luce, tanto che diventerà il soggetto principale di 47 opere, tutte con lo stesso identico titolo. Le prime avranno uno stile ancora realistico, il ponte è riconoscibile al centro della composizione ombreggiato dalle foglie che si riflettono sull’acqua

Verso i 70 anni, nel 1908, Monet però inizia ad avere grossi problemi di vista. Le ore di lavoro si riducono durante il giorno limitandosi alle ore più luminose e indossando un ampio cappello di paglia per proteggere gli occhi da quella luce indispensabile al lavoro dell’artista ma quasi dolorosa. La cataratta è nemica diretta del famoso occhio di Monet, lo sguardo sensibilissimo verso  tutti i colori che lo circondano…un occhio che inizia a tradire l’artista ma che getta le basi per la pittura di tutto il novecento e anticipando l’arte astratta

I colori cambiano, i dettagli si perdono, la percezione delle distanze diventa molto meno affidabile. Le opere testimoniano questo cambiamento, ormai è quasi cieco! Ma a 83 anni Monet si fa operare all’occhio destro e riconquista la vista, anche se ovviamente non del tutto. E dalle forme sfaldate prima, dalla cataratta e poi dalla visione trasformata dalla luce, arriva fino a forme che non ricordano, se non molto vagamente, il soggetto da cui era partito… come ad esempio nella serie del Salice piangente che si trasforma via via in linee di colore astratto.

Ormai il Monet impressionista è stato sorpassato dal Monet che, anziano, risulta modernissimo e nelle varie serie che realizza mette bene in evidenza l’evoluzione della forma: il passaggio dalla precisione dell’arte giapponese, allo studio delle luci, delle forme che si sfaldano e cambiano…fino al problema  delle ombre, argomento discusso tra i pittori suoi contemporanei. Nelle opere di Monet le ombre non sono mai nere ma sempre colorate, soprattutto di violetto e di blu per le ombre create dal sole mentre sono in verde per le ombre della luce al tramonto

GUGGENHEIM La collezione Thannhauser. Da Van Gogh a Picasso

GUGGENHEIM La collezione Thannhauser. Da Van Gogh a Picasso

GUGGENHEIM
La collezione Thannhauser. Da Van Gogh a Picasso…a Palazzo Reale a Milano!

Immaginate una famiglia di ricchi collezionisti ebrei che dalla fine del Novecento si fa notare tra i maggiori mercanti d’arte per la spiccata passione per l’arte di avanguardia.

Immaginate come poteva essere casa loro…anzi no, non serve immaginarla, una serie di fotografie in mostra ci fanno realmente capire cosa significa l’incontro tra una donazione privata, questa dei Thannhauser e un museo come il Guggenheim. Opere che finiscono direttamente in mostra in un museo…passando dal salotto buono!

Le cinquanta opere esposte coprono praticamente un secolo di storia dell’arte  partendo cronologicamente dalle opere impressioniste e post impressioniste degli artisti più famosi come Cézanne, Seurat e Renoir. Renoir che qui ci presenta Lise Tréhot, modella ma anche compagna dello stesso Renoir per ben sei anni. Qui non ancora impressionista ma quasi. La pennellata è delicata e la scena intima e quotidiana. Il pappagallino in gabbia quasi soffoca quanto la donna in questo ambiente dell’alta borghesia effettivamente un po’ troppo ricolmo di decorazioni, suppellettili e la stessa veste, scomoda, pesante ed opprimente. Ma guardate bene i colori e il gioco di sguardi: c’è proprio un filo sottile che collega questo pappagallino variopinto alla donna che ha nelle pieghe del vestito un richiamo diretto alle piume e nel colore dell’orecchino…lo stesso identico colore delle sbarre della gabbietta. Le donne all’epoca effettivamente non vivevano certo in massima libertà come gli uomini…erano ingabbiate proprio come gli uccellini!

Di Manet vediamo due donne, differenti eppure accomunate dalla stessa pennellata imprecisa eppure così chiara nel definire forme e colori.

Della figura femminile Davanti allo specchio vediamo bene solo la schiena, nuda, il corsetto allargato che permette appena il respiro. lo specchio non ci mostra il suo volto che possiamo solo immaginare…Ma noi siamo lì dentro con lei, lo spettatore fa parte quasi del dipinto, lei sa che di non essere sola, ecco perché porta indietro quel braccio e, quasi, ci sfiora. La donna con il vestito a righe invece ci guarda serena. L’opera tra l’altro è stata ritrovata incompleta nella soffitta dell’artista ed è stata sicuramente completata, nello sfondo, da altre mani (ci sono addirittura delle fotografie dell’epoca come prova del suo essere incompleta…ma per vendere bene un quadro è meglio sia tutto colorato no?!) E quindi la figura femminile e il suo vestito, originariamente pare essere stato addirittura descritto come “violetto”, oltre al completamento forzato hanno subito anche una bella verniciatura lucida e, nelle intenzioni, protettiva che ingiallendo negli anni…aveva reso addirittura il vestito verde! Appena prima della mostra l’opera è stata restaurata completamente tornando, si spera, ai colori originari…quelle righe blu notte che tanto andavano di moda in questi abiti elegantissimi dal corsetto che levava il fiato!

Dalle opere impressioniste si arriva poi ai paesaggi, qui nemmeno poi troppo esotici, di Gauguin che forse confonde la lingua tahitiana e sceglie come titolo la traduzione di “vieni qui” per un dipinto bucolico con palme e maiali in primo piano. I paesaggi di Van Gogh sono contorti  e sofferti così come probabilmente era la visione del mondo che aveva l’artista in quel momento in cui, proprio a Saint Rémy, era ricoverato nel manicomio psichiatrico e vedeva nella pittura en plein  air una forma di terapia.  E si rimane  poi stupiti di fronte ad un Monet che a Venezia ripensa sicuramente al Canaletto ma che preferisce cogliere l’atmosfera della laguna veneziana più che i particolari dei palazzi riflessi nei canali.

I Paesaggi cittadini che sceglie di rappresentare il giovane Picasso appena arrivato a Parigi per l’Exposition Universelle, nell’ottobre del 1900, sono movimentati come lo doveva essere il giorno della festa per la presa della Bastiglia o come le scene della famosa sala da ballo di Montmartre dove l’artista rappresenta una scena notturna un po’ decadente animata da ricchi, giovani della borghesia francese e prostitute, ben riconoscibili nel lato a sinistra dell’opera, grazie a quel trucco così marcato. Il taglio dell’opera è fotografico, e proprio di taglio dobbiamo parlare visto e considerato che i personaggi laterali sono proprio, almeno in parte, fuori dalla scena dipinta, così da far avvicinare il più possibile lo spettatore a questa atmosfera parigina…

Si arriva poi all’espressionismo che trasforma i paesaggi cercando la rappresentazione delle sensazioni e delle emozioni più che la rappresentazione realistica della natura… e abbiamo così un Braque che nei pressi di Anversa dipinge con colori improbabili il porto nelle Fiandre. Del resto anche i fondatori del Cavaliere Azzurro,  Kandinsky e Marc, ricercano il potenziale espressivo del colore e le associazioni simboliche per immaginare  un futuro migliore proprio attraverso l’arte. La montagna diventa blu, blu come il Cavaliere del loro sogno utopistico mentre la mucca, giallissima addirittura con macchie blu,  è leggiadra come se fosse una ballerina di Degas!

Ai Thannhauser piaceva sostenere gli artisti  emergenti fin dagli anni precedenti la Grande Guerra ma dagli anni ’30, causa crisi economica internazionale prima e per l’ascesa del nazismo poi, sono costretti a chiudere la Galleria di Berlino trasferendosi a Parigi e poi a New York. In America la residenza Thannhauser diventa un punto di incontro per personalità di spicco dell’epoca del mondo dell’arte, certo, ma anche della musica, del teatro e del cinema: Bernstein, Duchamp, Toscanini e Picasso…Tutti presenti in questo salotto che era anche fucina di idee e sponsorizzazione per i tanti grandi nomi all’inizio della loro carriera. Ed ecco i primi accenni dell’arte cubista quando Picasso lavora fianco a fianco con Braque nei Pirenei Francesi, i toni di grigio e marrone formano i piani delle case che si incastrano tra loro caratterizzati dalla molteplicità di punti di vista contemporanei. Anche Delaunay sceglie come soggetto le città e ne fa addirittura una serie di otto dipinti, in mostra ne possiamo vedere uno, caratterizzato dalle pennellate a quadrettini regolari e dai tocchi di colore vivace, rossi e verdi che risaltano sul bianco e sul grigio dello sfondo.

Non mancano comunque le classiche nature morte, anche queste che vanno variando man mano che passa il tempo e varia lo stile artistico…

Ma in mostra troviamo anche Rousseau il Doganiere, Gris, Picabia, Matisse e Klee…

Milano, Palazzo Reale, dal 17 ottobre 2019 al 1 marzo 2020

La natura morta

La natura morta

La natura morta è un soggetto pittorico e…no, non le hanno sparato e nessuno l’ha uccisa, tanto per mettere subito in chiaro le cose!

“Natura morta” par quasi un ossimoro, una contraddizione in termini perché la natura è viva per definizione…come si fa a parlare di natura morta!?!

eppure…

Natura morta= rappresentazione di frutta, fiori, selvaggina, strumenti musicali, libri… oggetti inanimati.

Sono oggetti a volte rappresentati fuori dal loro contesto (ad esempio un mazzo di fiori recisi in un vaso), morti quindi…ma vivi in eterno in quella particolare opera pittorica.

A parte qualche raro e particolarissimo esempio di natura morta nell’antichità questo soggetto non ha mai avuto vita autonoma fino all’arrivo di Caravaggio.

In epoca ellenistica troviamo gli asarotos oikos (casa non spazzata), quasi il pavimento delle nostre aule a fine giornata insomma…

Realizzazioni a mosaico che mostrano direttamente sui pavimenti avanzi vari (cibo, scorze di limone ecc). Asarotos e Xenia (doni augurali agli ospiti) sono probabilmente legati al culto dei morti. Il cibo caduto dalla tavola, lì per terra, rimane destinato ai famigliari defunti (no, non provate ad usarla come scusa per non pulire in terra…non funzionerà con me, tzè!)  tra l’altro  serve anche per mostrare agli ospiti gli scarti del proprio lussuoso e prelibato cibo (ancora oggi va di moda andare a sbirciare nelle pattumiere delle celebrità per scoprire cosa ha mangiato a pranzo il super vip!). Gli Xenia invece sono affreschi con simile scopo, piccole rappresentazioni cibo sulle parete, come ad esempio il cesto di fichi che troviamo in una casa a Pompei.

Per secoli troveremo pregevoli esempi di natura morta ma solo affiancati ai soggetti principali: i ritratti.

Nel 1474, ad esempio, Antonello da Messina ci mostra San Girolamo nello studio.

Il Santo è  letteralmente immerso in una incredibile scena prospettica arricchita da tante piccole nature morte, sia nella libreria che sulla scrivania del Santo ma anche in primo piano, proprio di fronte all’osservatore. Del resto lo stesso San Girolamo realizzato però da Jan van Eyck intorno al 1435, sceglie un’ambientazione simile, con contorno di natura morta compreso!

Verso la fine del 1400 l’emiliano Antonio Leonelli (conosciuto anche come Antonio da Crevalcore), raffigura San Paolo seduto al centro di piccole ma chiarissime nature morte: da un lato candele e candelabro, dall’altro penne, calamaio e forbici con effetto tridimensionale che ne fanno quasi un trompe l’oeil.

Sempre del 1400 c’è un esempio di natura morta un po’ particolare…realizzato ad intarsio in legno: lo Studiolo del duca di Urbino nel Palazzo Ducale, con oggetti quali libri, clessidre, strumenti musicali scelti anche per i loro significati simbolici.

Giuliano e Benedetto da Maiano e bottega, tarsie dello studiolo di Federico II

Anche Raffaello non ha resistito al richiamo della natura morta e nell’Estasi di Santa Cecilia mette ai suoi piedi una natura morta composta solo da strumenti musicali.

Raffaello, Santa Cecilia

Nel 1533 a stupirci con il doppio ritratto dei due “Ambasciatori” è Hans Holbein.

I due personaggi  mostrano, con una certa soddisfazione, gli scaffali ricolmi di oggetti incredibili e preziosi simbolo anche del loro piacere per lo studio e del loro potere (in aggiunta a tutto questo ai loro piedi c’è anche la misteriosa anamorfosi con un teschio!)

Un caso al limite è rappresentato da Arcimboldi. Questo pittore geniale trova quasi un compromesso tra ritratto e natura morta: realizza ritratti…composti però da oggetti (fiori, animali…ecc). Non siamo ancora quindi alla natura morta autonoma ma davvero poco ci manca!

Intorno alla metà del 1500 in Europa si cominciano a vedere opere dove gli oggetti sono più protagonisti…dei protagonisti stessi!

Basti pensare all’olandese Pieter Aertsen che nelle sue scene sacre mette le figure sacre sullo sfondo lasciando lo spazio in primo piano tutto dedicato ad incredibili nature morte.

Pieter Aertsen cristo con Marta e Maria

Dobbiamo aspettare l’arrivo di Caravaggio per vedere davvero per la prima volta, in Italia,  una tela “sprecata” solo ed esclusivamente per un soggetto inanimato.

Caravaggio, Canestra di frutta

La prima natura morta, autonoma, della nostra storia dell’arte è infatti la Canestra di frutta del 1599 (e forse chissà…senza la sponsorizzazione del Cardinal del Monte, che la commissionò per farne dono al cardinal Borromeo, ora non saremmo nemmeno qui a parlarne…).Il particolare curioso è che la stessa cesta di frutta, poco prima, la dipinge in mano ad un modello…e poco dopo  la ritroviamo protagonista della Cena in Emmaus

Caravaggio da sempre insegue la rappresentazione del vero, della realtà così com’è e anche qui non ci delude in questa sua ricerca a volte spietata: la frutta è un po’ marcia, la mela bacata, la foglia è stata mangiucchiata da un bruco di passaggio. Forse il suo cesto di frutta era davvero così o forse il pittore ha realmente voluto proporci una perfetta rappresentazione della caducità della vita, tema molto in voga in quel periodo, assieme al memento mori: ricordati che devi morire, tutto ciò che è bello, vivo, fresco è destinato a marcire e a morire, vivi bene perché non sai quando tutto questo avrà fine…

Verso la fine del 1500 troviamo molte rappresentazioni di cibo esposto (al mercato, in vendita, nelle cucine…) ma sempre con qualche personaggio, seppur sempre più defilato.

Nel 1600 la natura morta è un genere ormai diffuso in tutta Europa e diventa un vero e proprio genere pittorico.

Ed ecco quindi Pieter Claesz con la classica Vanitas (il teschio che allude alla morte, la candela richiama la luce della vita, il fiore reciso -che appassirà- e l’orologio rimandano direttamente al tempo che passa); e Evaristo Baschenis, il bergamasco maestro della rappresentazione di strumenti musicali dell’epoca, spesso anche un po’ impolverati…il tempo passa anche per loro insomma!

Gli oggetti non sono quasi mai scelti per caso, sono simbolici: il passare del tempo (orologi, clessidre) i teschi (la morte), le candele (accese o spente sono  la vita o appunto la sua fine), fiori recisi, calici e vasi in vetro (brevità e fragilità della vita) mentre gli oggetti preziosi (oro, gioielli, monete) rimandano al concetto di tutto quanto reputiamo indispensabile nella nostra vita che però sarà del tutto inutile nella morte. Spesso anche gli stessi fiori sono scelte simboliche (i gigli sono da sempre il simbolo della Madonna e alludono alla purezza).

Nel 1700 la natura morta diventa anche un’ottima scusa per mostrare vero virtuosismo: fiori perfetti, frutta prelibata…viene un po’ a mancare tutta la simbologia di vanitas e memento mori e nel nord Europa si cerca in questo genere pittorico quello che è a tutti gli effetti un quadro gradevole senza troppi messaggi nascosti.

Ecco quindi Luis Melendez con dei succosi limoni e Jean Baptiste Chardin con un tavolino pronto per una tazza di caffè e un bicchiere d’acqua.

Ma la natura morta nel corso dei secoli successivi…è ben viva, altro che morta!

La ritroveremo nel 1800  rappresentata con pochi rapidi tocchi dagli impressionisti come Manet e da Cézanne.

Braque nel 1919 ce la mostrerà da differenti punti di vista come voleva fare l’arte cubista mentre Giorgio Morandi ne farà una visione metafisica negli stessi anni.

Poco più tardi René Magritte re del surrealismo ci stupirà con oggetti che forse, chissà, sono ancora nature morte…o forse no…

 

Anche noi nel nostro piccolo abbiamo provato a disegnare delle nature morte e…non vediamo l’ora di mostrarvele: se siete curiosi cliccate qui!